STRANGE DAYS
Sei l’unica me che ho. Sembra ripeterlo Virginia Cassano in un monologo fatto di immagini.
Scorre, la vita come un disco che a volte si inceppa, una melodia storta. Scorre nelle rose fiorite sul balcone, nel sapore del caffè che toccherà le labbra, nei piatti di un pasto quotidiano consumato velocemente, in un laconico lavabo d’acciaio, nell’asciugamano intorno ai capelli che si fa corona mentre si negozia con il proprio corpo, scorre in quel disordine che è la polvere della vita. Scorre nelle piccole cose di tutti i giorni, un animale domestico -un gatto- aspetta e poi veglia, si appoggia in un momento di intimità. Le tende sono sollevate a metà. Siamo dentro. Qualcuno salta come fosse un’ombra, reliquie blu di un compleanno galleggiano nella stanza. Le polaroid segnano il ritmo, sembrano scandire un tempo diverso, strappato. Gli abiti sul letto, i trucchi. Come una fedeltà al destino che scombina le cose. Sono piccoli gesti di ribellione, come di rottura. Più avanti nella narrazione un gesto mi colpisce, un rossetto che dipinge, forse dopo tempo, una bocca. Strani giorni, questo il titolo del progetto. E sono giorni che insistono, aprono crepe, rimbalzano in una solitudine necessaria, dove piccole rinascite si alternano a cadute in una terra desolata, una landa domestica dove i ruoli sono esplosi ma senza rumore.
C’è una ferita, accennata e mai detta. C’è una fatica, uno sforzo di restare, un urlare sottovoce. C’è un abbandono che ha scombinato ogni cosa. E una donna, Virginia, che appare e torna ad essere corpo, carne stretta tra le dita, desiderio.

Mani si alzano al cielo in una preghiera che sa di liberazione -e siamo fuori le mura domestiche-, un piede ci ricorda che il peccato è pesante come la pietra. Virginia Cassano ci dice lo smarrimento usando una fotografia in un modo volutamente imperfetto: non c’è niente di lucido e lucidato, niente vezzi o composizioni che rubano lo sguardo con accondiscendenza.
Ci fa stare scomodi, incastrati in un sentimento impreciso ma che allo stesso tempo risuona in noi. Strani giorni che in qualche modo abbiamo riconosciuto perché li abbiamo vissuti anche se poi dimenticati appena possibile, messi via in uno di quei cassetti che non apriamo mai. Come una canzone legata ad un momento doloroso che non vogliamo più sentire. Qui la fotografia è diario scritto senza correzioni, con cancellature visibili, d’istinto. Un istinto alla sopravvivenza che come quei rami che si intravedono nell’azzurro porta ad una faticosa fioritura perché -per fortuna- si fa primavera e gambe si intrecciano ad altre gambe in quell’avvicinarsi deponendo le armature che è l’amore.
Questi Strani giorni sono giorni di ferite tamponate, di rammendi, di pezzi rimessi insieme. Sono giorni di cura attraverso la narrazione fotografica, sono il farmaco per guarire dando una forma alla sofferenza che è sempre qualcosa di osceno, cioè fuori dalla scena, di inaudito. Si può solo alludere, chiudere il discorso in un simbolo. Virginia compie un viaggio e ci lascia souvenir di una caduta e una rinascita fatta di tentativi ed inciampi. Sei l’unica me che ho, abbine cura.
Testo di Alessandra Boldoni - https://www.alessandrabaldoni.it/